EPILESSIA, IL CORAGGIO DI ROMPERE IL SILENZIO

IL CORAGGIO DI ROMPERE IL SILENZIO

«Io ho avuto le crisi». Tematica interessante anche in riferimento alla Sindrome di Tourette.
Per pudore, vergogna e timore di essere discriminati i due terzi degli epilettici, quelli che riescono a controllare le crisi grazie ai farmaci tacciono la malattia. Ma ora la loro Federazione li invita a uscire allo scoperto per rendere più efficace la battaglia per l’affermazione dei diritti, anche a chi non può nascondersi. Chi può, nasconde di avere l’epilessia. Perché dovrebbe svelarlo e correre il rischio di essere guardato con timore o di subire discriminazioni? «Il fenomeno dei malati sommersi, comune a tante patologie, nell’epilessia è pressoché la regola» esordisce Rosa Cervellione, presidente della Federazione Italiana Epilessie. Ma è proprio ai tanti malati nascosti che ora la presidente della FIE rivolge un appello: “rompete il silenzio”. Sarebbe un importante passo avanti, a favore di tutti coloro che sono coinvolti da questa patologia. «Ancora oggi, — spiega l’avvocato Cervellione — molte delle persone che riescono con le terapie ad avere il controllo delle crisi tacciono la loro condizione. Al contrario, i malati con epilessia grave e refrattaria alle cure non possono nasconderla. Quindi, sono loro a condurre, con famiglie e caregiver, le battaglie per la tutela dei diritti dei malati e sono loro a impegnarsi nella diffusione d’informazioni per sconfiggere lo stigma che ancora accompagna la patologia. Insomma, oggi in Italia le persone con epilessia sono circa 500 mila, ma è solo quel 30 % con forme più severe farmacoresistenti a lottare per dare dignità anche ai quei due terzi che si trovano in condizioni migliori». La battaglia per vincere lo stigma. Se i malati meno gravi superassero pudori e vergogna, dichiarando la loro condizione, farebbero bene non solo alla causa, ma anche a se stessi. Racconta la presidente FIE: «Io non ho l’epilessia e quindi non sono nella posizione di giudicare, ma ho una figlia con l’epilessia e mi sforzo di comprendere il vissuto dei malati. Per questo, credo debba essere terribile nascondere la propria condizione, perché è come vergognarsi di una parte di sé. Molti mi hanno detto: “sì, è vero, io nascondo la malattia, però così facendo non ho mai la certezza di essere accettato per quello che sono”. Il che, penso, equivalga a infliggere costantemente una ferita alla propria autostima».«Peraltro, — aggiunge Cervellione - anche chi si giova di cure efficaci non vive senza problemi, perché tutti i farmaci antiepilettici hanno effetti collaterali e perché, ad esempio, servono attenzioni particolari in gravidanza o per sottoporsi a un intervento. In sostanza, anche i “due terzi del cielo” che possono restare “nell’anonimato” hanno bisogno di ricerca, informazioni, strutture pubbliche che permettano di affrontare con serenità le varie fasi della vita». «Allora — continua — , escludendo ogni tipo di giudizio, dico che la battaglia per vincere lo stigma non va portata avanti solo nei confronti della società civile tutta, ma è un discorso rivolto alla nostra stessa comunità.
Avere una crisi epilettica, sotto il profilo dell’accettazione sociale, non deve essere considerato diverso dall’avere una crisi asmatica o un attacco di cuore. Per un infarto si può perdere coscienza, cadere per terra e si ha bisogno di soccorso. Le stesse cose accadono per una crisi epilettica. La caduta improvvisa, movimenti e contrazioni, o suoni strani che possono essere emessi durante una crisi sono solo le diverse manifestazioni della patologia a seconda dell’area cerebrale interessata. Chi le ha, non ha motivo di vergognarsene. Chi sa a cosa sono dovute, non ha motivo per averne paura». Dichiarare la malattia. «Le persone che hanno un’epilessia ben controllata,— prosegue — hanno un obbligo di riconoscenza verso quel manipolo di coraggiosi che combatte con grandi difficoltà, ma soprattutto devono acquisire la consapevolezza di avere un ruolo importante sia nella lotta contro discriminazione e pregiudizi, sia nell’incentivare la ricerca. Basti pensare a quanto diverso e più efficace potrebbe essere l’impatto, sul versante dell’accettazione sociale, se a presentarsi come malato di epilessia fosse un professionista di successo, che vive pienamente la propria esistenza. E ancora: permettere il confronto tra le forme meno severe della malattia e quelle incurabili metterebbe in luce quanto l’indisponibilità di cure penalizzi l’espressione di vita dei malati più gravi». «Mia figlia, che oggi ha 21 anni, ha avuto la prima crisi a sei mesi. Io non le ho mai chiesto se volesse o meno nascondere la sua malattia. La scelta l’ho fatta io per lei e, del resto, educandola a tacere la sua condizione, non esistendo una cura efficace per la sua epilessia, l’avrei condannata a vivere nell’angoscia che una crisi svelasse il suo segreto, con quel che ne sarebbe potuto conseguire rispetto alla sua integrità psichica — conclude Cervellione. Quando conosce persone nuove, mia figlia non ha timore di dire “ho l’epilessia”, anzi a volte ha quasi l’urgenza di dirlo. Dichiararlo, dal suo punto di vista, assolve a una duplice necessità: impedire a chi dovesse assistere a una sua crisi di spaventarsi e, nello stesso tempo, assicurarsi che in quel momento di grande fragilità chi le è vicino possa aiutarla. Dichiarare la malattia le permette, inoltre, di spiegare che le limitazioni che ha dipendono solo dall’epilessia. È come se affermasse “è la mia malattia che è così. Io sono io”. Non nascondere la propria epilessia è una presa di distanza dalla malattia. Perché ognuno è quello che è. Le sue malattie sono un’altra cosa».